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Volkswagen: dal Diesel al Volt

La rivoluzione che rischia di travolgere chi l’ha iniziata.

Quando il diesel era potenza, non scandalo

C’era un tempo, e non serve andare troppo indietro, in cui bastava sentire il rumore cupo di un TDI per sapere che dietro c’era Volkswagen. Affidabilità tedesca, efficienza meccanica, milioni di auto vendute ogni anno.
Poi (Settembre 2015) è arrivato l’uragano del Diesel Gate. E da quel giorno, a Wolfsburg, è cambiato tutto.

Non parliamo solo di un problema legale o d’immagine. Parliamo di una frattura culturale. Il gruppo che aveva costruito il proprio impero sull’idea del “motore perfetto” si è ritrovato improvvisamente a dover ripensare se stesso, in fretta, sotto pressione, con gli occhi di tutto il mondo addosso.

Da lì, la svolta.
Non si trattava più di “migliorare il diesel”, ma di voltare pagina. Letteralmente.

Dal Diesel al Volt: la corsa disperata verso la redenzione

Dopo lo scandalo, in Volkswagen capirono una cosa molto chiara: non bastava “ripulire” il diesel, bisognava cambiare pelle.
Così nacque il “piano elettrico” più ambizioso mai tentato da un costruttore tradizionale. Si parlava di piattaforme dedicate, stabilimenti convertiti, centinaia di modelli full electric entro il 2030.
La parola chiave era “Accelerate”: accelerare la trasformazione, a tutti i costi.
Letteralmente.

“Entro il 2030, 8 auto su 10 in Europa saranno elettriche.”

Un piano da decine di miliardi di euro, fabbriche convertite, linee di montaggio nuove di zecca, software e batterie “made in Germany”.
Per un po’, sembrava funzionare: entusiasmo, premi, ordini.
L’ID.3 e l’ID.4 furono i simboli della rinascita, le prime auto nate sulla nuova piattaforma MEB. Sembrava l’inizio di un’era dorata. L’ID.3 era la nuova Golf del futuro. L’ID.4, il SUV che doveva conquistare l’America.
Insomma, la redenzione sembrava arrivata su quattro ruote e una spina.


E per un po’, lo è stato davvero: entusiasmo, ordini, titoli in borsa che salivano. Il gruppo annunciava di voler produrre 27 modelli elettrici in pochi anni, e il mondo applaudiva.

Poi sono arrivati i numeri. E i numeri non mentono mai.

Nel 2024 Volkswagen Group ha chiuso con ricavi a 324,7 miliardi di euro e un utile operativo di 19,1 miliardi. Numeri da colosso, certo, ma con un margine operativo sceso al 5,9%, e — soprattutto — un cash flow dimezzato rispetto all’anno precedente: da 10,7 a 5 miliardi.

Nei primi nove mesi dell’anno il segnale diventa chiaro come una spia rossa sul cruscotto:
L’utile netto si attesta a 3,4 miliardi (–61,5%), mentre il margine operativo si comprime al 2,3% (5,9% un anno fa). Cash flow vicino a zero.
E un’ammissione che pesa come un macigno: “La crescita dell’elettrico sta comprimendo i nostri profitti.”

Tradotto: più auto elettriche vendono, meno margine portano.
Un paradosso che racconta perfettamente la crisi di crescita di questa transizione.

Il costo invisibile dell’innovazione

Il motivo è semplice e tremendo: Costruire un’auto elettrica costa di più. Molto di più.
Servono nuove piattaforme, nuove linee di produzione, nuove competenze, nuovi fornitori. Le batterie da sole rappresentano il 30–40% del costo totale di un EV.
In più, i margini sui modelli elettrici sono ancora sottili come la lamiera di un cofano in alluminio.

Volkswagen si è trovata a sostenere due mondi contemporaneamente: da un lato il vecchio business termico, da gestire e ridurre gradualmente, e dall’altro il nuovo universo elettrico, ancora lontano dal break-even.
Il risultato? I conti si assottigliano, la liquidità evapora, e gli azionisti cominciano a chiedersi se la scommessa non sia stata troppo audace.

La concorrenza gioca un’altra partita

A complicare tutto, ci si è messa anche la Cina.
Mentre Volkswagen costruiva la propria “rivoluzione” passo dopo passo, i brand cinesi — BYD, Nio, XPeng — correvano a una velocità diversa.
Più agili, meno costosi, senza il peso di una struttura da decine di marchi e migliaia di fornitori da riallineare.
E nel frattempo Tesla, dall’altra parte del mondo, continuava a macinare margini a due cifre grazie a economie di scala che VW può solo sognare.

Ecco perché oggi il colosso di Wolfsburg si trova in una posizione scomoda: i concorrenti vendono più EV e guadagnano di più, mentre loro devono ancora far tornare i conti.
Come se non bastasse, arrivano i dazi, i rincari delle materie prime e il rallentamento della domanda elettrica in Europa.

Risultato?
Volkswagen ha annunciato lo stop temporaneo in due stabilimenti tedeschi dedicati all’elettrico.
Un segnale che non lascia spazio a interpretazioni: il mercato non assorbe quanto previsto. Un segnale che fa più rumore di un motore V8.

L’elettrico di Stato: quando il dovere uccide il desiderio

La verità è che l’elettrico, per un gruppo come VW, non è solo una scelta industriale.
È una questione politica, quasi ideologica.
L’Unione Europea ha fissato lo stop ai motori endotermici al 2035 (data in fase di ripensamento…), e Volkswagen, fedele al suo ruolo di “pioniere regolamentare”, ha deciso di giocare d’anticipo.
Ma quando l’innovazione è guidata dal dovere e non dal desiderio, il rischio è quello di costruire prodotti corretti… ma non desiderabili.

E questo è forse il punto più dolente: l’elettrico Volkswagen non emoziona ancora.
La famiglia ID è razionale, ben fatta, tecnologica — ma priva di quel magnetismo che un tempo avevano le Golf GTI o le Passat TDI.
E nel mondo dell’auto, l’emozione vale ancora più del kilowattora.

Un gigante in salita

Oggi Volkswagen è ancora un colosso, ma è anche un colosso in affanno.
Ha i capitali, le fabbriche, i marchi.
Ma ha anche un problema: la percezione.
Il pubblico europeo guarda all’elettrico con curiosità, ma non ancora con desiderio.
E se il desiderio manca, i conti non tornano.

Serve una seconda rivoluzione, interna: meno retorica “green” e più concretezza industriale.
Meno prodotti fotocopia, più auto che facciano sognare anche chi ama ancora il profumo di benzina.

Cosa significa per gli altri costruttori europei

Il caso Volkswagen è uno specchio in cui tutti, da Stellantis a Renault, dovranno guardarsi.
Perché se il colosso tedesco, con tutta la sua potenza economica, fatica a rendere redditizia la transizione elettrica, cosa succederà a chi ha risorse minori?

I prossimi anni saranno decisivi.
Chi riuscirà a rendere l’elettrico emozionante e sostenibile, non solo ecologicamente, ma anche economicamente, vincerà la partita.
Gli altri, semplicemente, faranno da spettatori.

Il prezzo della coerenza

In fondo, la storia di Volkswagen è quella di un’azienda che ha avuto il coraggio di sporcarsi le mani pur di reinventarsi. È passata dal “motore che tutti volevano” alla “batteria che tutti discutono”.
E ora deve dimostrare che quella scelta non è stata solo un atto di redenzione morale, ma una decisione industriale vincente.

Se non ci riuscirà, la transizione elettrica rischia di diventare la sua croce più che la sua rinascita.
Ma se invece riuscirà a chiudere il cerchio, margini, prodotto, passione, allora potremo dire che la Volkswagen avrà completato davvero il suo viaggio: dal diesel al volt, dalla colpa alla consapevolezza.

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